SPOLETO54, A ZONZO PER "LE CITTA' INVISIBILI" DI ITALO CALVINO, PASSANDO PER IL TEATRO ROMANO (foto TO®)

(Carlo Vantaggioli)- C’è una sorta di crudeltà, senza malizia per carità, quando il programma del Festival predispone gli spettacoli unici a metà settimana. Sulla scorta delle esperienze precedenti, di solito di si tratta di cose splendide che poi finiscono nello spazio della memoria in men che non si dica, lasciando a bocca asciutta chi vorrebbe invece andare a vedere almeno una replica. Dispiace ripetersi, ma a questi spettacoli viene anche riservata  scarsissima comunicazione così che diventano patrimonio di pochi eletti. Era successo lo scorso anno con una piece deliziosa come  “La Moglie a Cavallo” di Goffredo Parise, mortificata da due spettacoli alla sala Frau ai quali si e no avranno risposto 70 spettatori in tutto, ed in parte è accaduto anche ieri sera al Teatro Romano per  “Le città invisibili” di Italo Calvino, con Massimo Popolizio, le musiche dal vivo di Javier Girotto e la regia di Teresa Pedroni. Lo sforzo di rendere fruibile per l’orecchio ciò che in verità è nato per essere “ascoltato” dalla propria anima nel corso della lettura, sembra essere stato gradito dai circa 150 spettatori presenti. Molti applausi a scena aperta sia per la assoluta maestria di Girotto che per la sfrenata affabulazione di Popolizio. Come prevedibile la scena era acconciata alla solita foggia, due leggii ed un piccolo, quanto efficiente, set tecnico per Girotto. Unico lusso, una bottiglia d’acqua (liscia?) ed un monacale bicchiere di vetro per l'ugola  di Popolizio...

E poi, viaggi ininterrotti nelle più incredibili luci, con suoni e odori, parole a fiumi, ed anche a laghi, molto presenti nel testo di Calvino. Magnolie che con le loro propaggini sembrano avere sembianze umane, donne bellissime che si bagnano o che sono disponibili a seconda dei luoghi, minuziosa descrizione della qualità dei legni con cui si intagliano scacchiere, ghepardi portati al guinzaglio. Tutta questa sorta di incompiuto macrocosmo, o microcosmo a piacere, di natura  “arcimboldesca”, pulsa nei dispacci che Marco Polo riferisce al temibile Kublai Khan, in una sorta di crescendo rossiniano a chi la spara più grossa e dove l’unico orizzonte possibile può essere soltanto il senso della frase con la quale si chiude lo spettacolo,  “"L'inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n'è uno, è quello che è già qui, l'inferno che abbiamo tutti i giorni, che formiano stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce fatale a molti: accettare l'inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione ed apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare e dargli spazio".
Una chiusa che fa tornare tutti con i piedi per terra dopo aver viaggiato per oltre un ora su aeromobili verbali e musicali. Popolizio è a tratti istrionico alla maniera di Gigi Proietti in “A me gli occhi please…”, trombonico come Gassman quando declama l’Otello o legge il Menu’ e inquietante come Carmelo Bene quando  recita Majakoskij. Da non distrarsi un secondo, per la curiosità di scoprire quale scala di toni userà nella lettura successiva. Una superba prova non c’è che dire.
E di Girotto non vorremmo nemmeno parlare tanto è superfluo lo scrivere di musica quando questa è frutto di una visione immaginaria, ma anche di radici salde nell’america latina, come quella scritta per “Le città invisibili”. Assoli che al di là della palese capacità esecutiva, diventano a tratti dialogo o grido senza eco. Una forza della partitura e degli arrangiamenti che non concedono divagazioni che portino lontano dal testo di Calvino e dalla recitazione di Popolizio, che si coccola il suo compagno di scena con buffi attorcigliamenti su se stesso quasi a voler compiere la medesima strada che le note percorrono sullo spartito. Un viaggio che forse prosegue, aldilà dell’unica recita in programma al Festival. 

Una riflessione però si impone stante la qualità del progetto appena visto: alla fine di Spoleto54, nel momento della lettura del bilancio artistico del Festival, sarà interessante capire se i numerosi reading in programma quest’anno abbiano avuto il segno dell’austerity, legata al momento contingente, o piuttosto non abbiano rappresentato una scelta consapevole verso un tipo di asciutta teatralità che metta la voce recitante sola ( o poco meno) davanti ad un pubblico, che in questo contesto diventa esigentissimo ed attento, non ha alibi per scantonare, in un vero corpo a corpo. Una sorta di “senza rete” che il M° Ferrara ha adottato a scopo educativo per attori e spettatori, un gesto maoista alla “colpirne uno per educarne cento”. Ci prenotiamo ovviamente per la domanda.

Unico neo della serata, il frastuono proveniente da una attività turistico-commerciale vicina al Teatro Romano che per tutta la serata ha "suonato" di concerto con Girotto per mezzo di una potente macchina di aspirazione (o forse condizionamento), riuscendo ad intontire un intero settore del Romano.

 E non si stava nemmeno freschi, oltretutto!

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